A parte una leggera antipatia che comunque non va mai oltre la violenza fisica nei confronti di bresciani, gobbi, psicologhe, boy scout, bilanisti, metallari, giocatori di baseball, impiegati statali, centravanti brasiliani, cattolici hardcore, intellettuali, vegetariani, omosessuali, meridionali (per me i cremonesi sono già terroni), avvocati, femministe, spezzini, leghisti, quelli da centro sociale, gabber, gli islamici che vengono qui e cercano di rubare le nostre donne e i nostri giocatori, i francesi, Chas, gli albanesi, e circa il 98% delle persone che conosco, mi sono sempre reputato una persona di vedute aperte e progressiste. Però secondo me i calciatori con le mèches andrebbero sterminati.
Perché ci si dimentica spesso che il calcio è sì un gioco, ma dall'alta valenza morale. E non è bello che un calciatore, esempio anche per milioni di bambini che cresceranno con il sogno di diventare da grandi ignoranti come delle merde, ma ricchi da far schifo e capaci di trombarsi le veline, si faccia vedere con i capelli scoloriti. Perché a questo mondo certe piccole ed innocue debolezze come la zoofilia (se l'animale è consenziente, ovviamente) o il delitto d'onore sono assolutamente accettabili e perdonabili (son ragazzi, in fondo), ma uscire con le mèches è un peccato intollerabile e che andrebbe combattuto, magari punito con l'ergastolo.
Come la droga, l'AIDS, o l'essere gobbi, è la disinformazione la debolezza entro cui si insinuano queste piaghe sociali. E sulle mèches (che recenti studi hanno dimostrato essere in tutto e per tutto una malattia paragonabile all'herpes vaginale) non c'è mai stato il dovuto impegno sociale nel cercarlo di combattere.
In passato ci sono stati degli illuminati precursori che hanno cercato di sensibilizzare la cultura occidentale come la conosciamo con delle lezioni di vita. Come ad esempio Daniel Passerella, noto pedagogista e amico dei bambini, famoso per come aveva imposto rigidi canoni per il taglio di capelli ai suoi giocatori, quando allenava la nazionale argentina. Con le esclusioni eccellenti di giocatori come Batistuta e Redondo (famoso l'aforisma come apostrofò l'ex stagista del Bilan, un capolavoro di saggezza ed arguzia: "Fernando, con quei capelli mi sembri una checca").
Ma, proprio come per le retrocessioni d'ufficio nei confronti della Jubentus, come si suol dire, non si fa mai abbastanza.
Le mèches sono prima di tutto un problema sociale, e di quelli gravi. Non stiamo parlando di discussioni da bar, futili e sciocche, come ad esempio se Inzaghi e Gilardino possono convinvere (secondo me sì, ma non adottare dei bambini), ma di una piaga che rovina le menti dei calciatori, li spinge a comportamenti aberranti, e a rovinare le loro carriere.
Prendete l'esempio di Beckham, che da quando s'è fatto lo mèches, lui, castano naturale, s'è trasformato da "più forte crossatore del mondo" in "Coco d'Inghilterra". O Vieri, che da centravanti titolare dell'Inter e della nazionale, in seguito alla decolorazione dei suoi capelli, è passato subito dopo in oscure squadrette di provincia, con passato in serie minori.
Fior fiore di giocatori si sono rovinati a questo modo. E tutto per una malattia che con la giusta informazione, le dovute precauzioni, e delle addestrate squadre della morte sguinzagliate contro coloro che si decolorano i capelli, potrebbe essere sconfitta.
Se tenete quindi ai vostri campioni, amate la vostra squadra, e siete degli idealisti seguaci di questo sport, alle prime avvisaglie di decolorazione dei capelli dei vostri calciatori preferiti, usate l'intimidazione e la vendetta trasversale per impedire loro di continuare.
Forse vi beccherete qualche denuncia e la nomea di violenti. Ma in fondo anche per tutti gli altri precursori come Galileo Galilei, Gesù, e Peter North non è stato semplice all'inizio. Specie per Peter North. Ma questo, come si suol dire, è un'altra storia.